martedì 21 settembre 2010

The Limits of Control

di Jim Jarmusch. A quattro anni da Broken Flowers, Jarmusch si presenta con questo nuovo gioiellino che abbiamo visto di passaggio al Milano FF, ma di cui ancora non è prevista uscita italiana. The Limits of Control è la surreale storia di un killer che viene assoldato per una missione di cui si sa poco-nulla e che viaggerà attraverso la Spagna incontrando una improbabile staffetta di personaggi che lo dovranno condurre al suo obiettivo ultimo. La sua permanenza è scandita da azioni sempre uguali nella loro meccanicità e nel loro mistero. Tentare di spiegare cosa succede narrativamente in The Limits of Control è una perdita di tempo,  nel senso che è un film da vedere, godendo di ogni singolo dialogo o movimento di camera. Come accennavo, Jarmusch porta qui all'estremo il suo lavoro di astrazione cinematografica, concatenando una serie di personaggi senza nome e di azioni che sembrano non avere una logica. O forse sì? Infatti il suo protagonista rimane sempre fermo, tranquillo, quasi impassibile davanti all'assurdità delle figure che gli si muove incontro. Ognuno di loro si troverà con lui al tavolino di un bar in cui il protagonista ordina sempre due espresso in due tazzine separate, instaurando dialoghi profondi sulla vita e di questa rapportata all'arte. Il primo di questi, un violinista interpretato da Luis Tosar, gli parla di musica; la bionda Tilda Swinton di cinema (con una bellissima disquisizione su come i film muti le piacciano perché le fanno scoprire come era la vita negli anni delle riprese); una giapponese di scienza (molecolare); il chitarrista John Hurt d'arte; il messicano Gael Garcia Bernal di allucinazioni, di come nulla nella vita sia vero e della forza dell'immaginazione, un po' il significato ultimo della pellicola, in cui lo stesso protagonista ne vive una sdoppiata (uomo-killer, che vengono definite anche da un tipo d'abbigliamento completamente differente). Ricorre in tutti i discorsi il tema dell'inutilità della vita, con slogan del tipo "La vita non vale niente" o "E' una manciata di polvere". Ma Jarmusch non si ferma con il suo linguaggio simbolico: il protagonista che non parla quasi mai, va spesso in un museo d'arte. Entra ogni volta per guardare un solo quadro: raffigurazioni che poi in qualche modo ricorreranno all'interno della pellicola: uno strumento musicale, una donna nuda, una città, un telo bianco (non sto a precisare a cosa per il rischio che vi racconterei tutto. Fateci caso comunque). Come per ogni tesi, il regista propone anche un'antitesi nel suo personaggio di chiusura, racchiusa nell'obiettivo ultimo del killer: un uomo americano, probabilmente un politico-diplomatico interpreatato da Bill Murray, che ferreamente dichiara "le vostre menti sono state riempite di merda... non fanno capire un cazzo di come va il monto". E così Jarmusch traccia la linea, la sua morale (se se ne può trovare una) del rapporto contrastante che da sempre la vita ha con l'arte, suo riflesso e astrazione, sua parte irrazionale, angolo di luce in cui l'uomo si va a rifugiare per... vivere. Anche se questo richiede l'andare oltre i limiti del controllo. Lo so... ci avrete capito poco... procuratevelo, fatevi un sacco di seghe mentali, amatelo, emozionatevi davanti a ogni inquadratura. Riprova che Jarmusch sia uno degli autori contemporanei assolutamente più interessanti e geniali.

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